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Laos


Chi va in Laos è gente un po’ speciale, di quella che lascia che il mondo scorra intorno a sé. Gira tra i templi senza accorgersi del tempo che passa; si siede al Sunset bar, sorseggia una Beerlao ghiacciata e si ferma a guardare la gente che passa, quel loro camminare aggraziato. Qualcuno ricambia lo sguardo con un sorriso. Sabai dee!

Dalle finestre del Beau Rivage hotel s’intravede nella foschia l’altra sponda del Mekong, quella tailandese: Bangkok, il traffico, le auto, le vetrine scintillanti, la frenesia sono solo a poche ore da qui, ma è un mondo lontano mille miglia. Vientiane, capitale del Laos, assomiglia piuttosto ad un capoluogo di provincia, con negozi semivuoti e molte più bici che auto: quasi non c’è rumore, come fosse domenica pomeriggio nel mese di agosto.
All’imbrunire si passeggia lungo il Mekong, aspettando il tramonto, quando i cieli si tingono di arancio e l’acqua del fiume diventa metallo fuso: la luce si dissolve e i proprietari dei chioschi accendono le lanterne sui tavolini e cominciano a preparare le griglie.

Unica nazione indocinese senza sbocco sul mare, il Laos ha languide abitudini e una certa indifferenza al turismo che la rendono un eremo idilliaco, l’ultimo rifugio dei sognatori, come l’aveva battezzato l’esploratore francese Henri Mouhot, scopritore di Angkor. In breve uno dei paesi più accattivanti dell’Asia.
Sulle riviste di viaggi compare raramente, ma ogni anno il Laos è visitato da un numero sempre maggiore di viaggiatori romantici, intellettuali e persone che hanno voglia di scoprire un luogo, ma anche se stessi. Non è bello sottolinearlo, ma il Laos attira gli stranieri anche perché è un paese povero e quindi economico.

Il Laos fu la prima nazione ad avviarsi alla pace dopo una lunga guerra che ha devastato la penisola indocinese. Mentre guerriglieri comunisti e soldati del governo di Vientiane, appoggiato da Washington, si uccidevano nella giungla, la città era il centro del mercato dell’oppio e della prostituzione, nonché covo degli agenti CIA.
Le fumerie d’oppio e i bordelli hanno chiuso da tempo e al mercato centrale non si vede più la marijuana esposta tra le patate e l’insalata. Restano invece le bombe, quelle a grappolo, che servono a mutilare non ad uccidere: dopo più di trent’anni nella zona di Xiang Khuang, chiamata la Piana della Giare, le deflagrazioni colpiscono ancora una decina di persone al mese. Sono le Uxo, le bombe inesplose della guerra d’Indocina.
Dal 1964 al 73 le fortezze volanti americane hanno sganciato decine di milioni di ordigni di ogni tipo, insieme a tonnellate di agente arancio e altri defoglianti. Quando cessò il fuoco, il Laos deteneva il primato di paese più bombardato della storia.

A dispetto di ciò il Laos è un paradiso di biodiversità, un territorio per più della metà coperto da foreste primarie e da una fitta vegetazione di alberi di teak, palissandro e bambù. Cinque specie di gibbone, compreso quello dal ciuffo, ormai a rischio di estinzione, diversi felini, orsi e ancora un buon numero di elefanti asiatici fanno parte della ricca fauna del Laos. Le 22 aree protette del paese coprono poco meno del venti percento del territorio.
In Laos ci sono più di un centinaio di gruppi etnici, che parlano lingue e dialetti diversi, vivono sugli altipiani e praticano un’agricoltura di sussistenza, spesso nomade. Da qualche anno il governo laotiano ha messo a punto un piano ecoturistico per l'area di Nam Ha, nel nord ovest del paese. Questa zona, che ospita anche il terzo parco nazionale del Laos, è abitata dalla comunità degli Akha, di antiche origini mongole.
I turisti, accompagnati da guide locali, possono partecipare a diverse escursioni e fermarsi, di villaggio in villaggio, ospitati in piccole capanne, direttamente in famiglia o presso una guesthouse; una parte dei profitti rimane all'interno della comunità e serve a preservare la cultura locale.
La maggioranza della popolazione laotiana abita le pianure irrigate dal Mekong, coltivando riso e allevando i maiali. Il territorio del piccolo paese, in gran parte montuoso e accidentato, è solo in minima parte adatto all’agricoltura, che tuttavia rappresenta l’unica fonte di sussistenza per l’ottanta percento dei laotiani.

Nell’atmosfera sonnacchiosa della capitale sta comunque nascendo un certo fermento; i capitali cinesi sono arrivati anche qui e con essi si comincia a costruire qualche grande albergo, un casinò, un centro commerciale. Ma nelle campagne mancano ancora le infrastrutture di base, in molti villaggi non arriva l’elettricità e anche la rete stradale è limitata. Per arrivare a Luang Prabang, se si esclude l’aero, ci vogliono più di dieci ore di una strada tutta curve e saliscendi.

La città imperiale sembra uscita da una vecchia stampa esotica: una trentina di templi d’oro dai tetti spioventi e altri gioielli architettonici incorniciati in uno scenario quasi ipnotico, tra le montagne e il Mekong.
Luang Prabang è l’unico posto del Laos con un discreto afflusso di turisti, molti dei quali vengono qui in aereo direttamente da Bangkok. E immancabilmente si appostano per catturare le immagini del Thak Bhat, la questua mattutina.
Il pellegrinaggio dei monaci, il loro sciamare lungo le vie di Luang Prabang per il consueto giro delle elemosine, è seguito ad ogni angolo dagli scatti dei turisti, richiamati come le api sul miele. Ma nessuna immagine può restituire intatti l’ondeggiare delle tuniche arancio, né la grazia delle donne inginocchiate che offrono cestini di riso glutinoso in cambio di una benedizione. Meglio sfuggire alla sindrome della fotografia a tutti i costi; meglio sedersi, all'ombra di un baniano, e godersi quest’irresistibile atmosfera.

continua a leggere: Perché andare - cosa puoi fare e cosa puoi vedere

     
     
     


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