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Storie dai Tropici

Le guerre selettive

(Tripoli, Libia - 20/3/2011)

Il mondo è diventato più brutto. Una pioggia di missili si è abbattuta ieri su Tripoli e già ci sono una sessantina di morti e oltre 150 feriti in aree civili. Sono cifre comunicate dalla televisione di stato libica e nessuno saprà mai se a provocare tante vittime in un solo giorno di guerra siano stati i raid della coalizione occidentale oppure gli scontri tra i rivoltosi libici e le milizie di Gheddafi. Ma non è questo il problema.
Il problema, come dice Gino Strada “è il ricorso allo strumento guerra”. C'è ancora chi crede alle guerre lampo, alle guerre umanitarie, agli interventi chirurgici, malgrado la storia passata e recente ci abbia ormai insegnato che una guerra non può mai risolversi rapidamente, che le guerre non sono mai mosse da motivi umanitari e che con le guerre non si fanno “interventi chirurgici”. Di chirurgia ce ne sarà bisogno, e molta, ma negli ospedali, per curare i tanti militari e civili massacrati in guerra.

Il mondo è pieno di dittatori che, come Gheddafi, umiliano popoli in rivolta e ci sono decine e decine di esempi di paesi divisi, insanguinati da guerre civili non meno gravi di quella libica, che producono ogni anno migliaia di vittime. Ma la nostra società opera da tempo scelte selettive, intervenendo quando vengono toccati gli interessi occidentali e continuando a chiudere gli occhi sulle guerre più sanguinose, le stragi e gli stupri di massa che vengono perpetrati lontano dal cortile di casa. Come può reggere il pretesto dei motivi umanitari, se viene applicato con la formula dei due pesi e due misure?

In Costa d'Avorio è in atto da mesi una guerra civile. In un quadro che definire surreale è poco, due presidenti e due fazioni rivali si fronteggiano dopo uno scrutinio elettorale, segnato da forti dubbi di brogli: metà della popolazione è con Gbagbo, che il mondo occidentale considera un dittatore e che si rifiuta di lasciare l'incarico, l'altra metà con Ouattara, leader dei gruppi separatisti del nord, a suo tempo artefici della ribellione che sfociò in una tragica e sanguinosa guerra civile. Centinaia e centinaia di morti e circa 500 mila civili in fuga dagli scontri: questo il bilancio.
Una escalation di violenza che grava in maniera insostenibile non soltanto sulla Costa d'Avorio ma anche sugli impoveriti paesi vicini, come Liberia e Ghana, che stanno accogliendo l'esodo incontrollato dei rifugiati.
Gli stessi volenterosi pronti a far guerra alla Libia hanno dichiarato di condannare fermamente gli attacchi contro i civili in Costa d'Avorio: la Francia ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di adottare sanzioni più severe contro il presidente ancora in carica Laurent Gbagbo, lo stesso ha fatto il segretario di Stato americano, Hillary Clinton. Ma qui nessuno si è sognato di mandare caccia bombardieri per impedire il massacro delle popolazioni civili.

Continuano gli eccidi nella Repubblica Democratica del Congo, dove imperversa la milizia armata del LRA, il cosiddetto Esercito di Resistenza del Signore. Le cifre, quasi 2.000 persone uccise e altrettante sequestrate, non rendono conto del gravissimo quadro umanitario che va sempre più deteriorandosi, nel silenzio della comunità internazionale. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha più volte denunciato gli stupri di migliaia di donne e bambini.
Come si muove la nostra tanto attiva società civile per aiutare i più vulnerabili in questo angolo dimenticato di Africa? Ci sono diverse ong presenti sul posto per assistere le vittime della spietata crudeltà dei miliziani dell'LRA, a cui si aggiungono le razzie dell'esercito regolare congolese, mandato a presidiare la regione. L'insicurezza e il caos rendono difficile qualsiasi intervento, tanto che gli operatori umanitari, lasciati senza un concreto sostegno, diventano essi stessi bersagli delle violenze.
L’instabilità del Congo permette, invece, lo sfruttamento delle enormi risorse naturali del paese da parte dei gruppi armati, i quali godrebbero di appoggi al di fuori del Congo per rivendere le materie prime a soggetti economici privati.
Nella Repubblica Democratica del Congo si consuma una delle peggiori crisi umanitarie della storia mondiale recente; l'ONU, che pure aveva dispiegato la sua più imponente missione di pace, sta ridimensionando l'impegno e ha già ritirato duemila uomini. La presenza dei peacekeeping è sporadica e insufficiente, mancano i mezzi e lo stesso Ban Ki Moon ammette che sarà difficile proteggere i civili se i paesi partecipanti continueranno a far mancare il loro appoggio. Mica si possono mandare soldati e mezzi dappertutto.

L'impegno per mantenere la pace costa e rende meno delle attività di guerra, che invece garantiscono un sostanzioso ritorno economico alle nazioni esportatrici d'armi. Secondo l'ultimo rapporto del SIPRI ((Stockholm International Peace Research Institute ), tra il 2006 e il 2010 la spesa militare nel mondo è cresciuta del 24% rispetto al quinquennio precedente, per un giro d'affari di oltre 400 miliardi di dollari. Una bella cifra, soprattutto se paragonata alle spese destinate alla cooperazione e ai programmi umanitari: sempre un 24%, ma di tagli e non di incrementi, è la percentuale con la quale deve fare i conti l'Humanitarian Action Plan. Fondi che sarebbero stati necessari per le operazioni di aiuto in Sudan, Yemen, Pakistan, nei territori palestinesi occupati, nella Repubblica Democratica del Congo e in una ventina di altre aree del mondo lacerate dai conflitti.

Nei conflitti di oggi, più del novanta percento delle vittime sono civili. Migliaia di donne, di bambini, di uomini inermi sono uccisi ogni anno nel mondo. Molti di più sono i feriti e i mutilati” da Pappagalli Verdi, di Gino Strada


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