Dai 3000 e oltre metri del Pico Duarte al bacino del lago Enriquillo, situato sotto il livello del mare, si passa dal punto più alto a quello più basso della Repubblica Dominicana e dell’intera regione caraibica. Record a parte, tra questi due estremi si estende un paese di grande diversità geografica che, invece, è conosciuto dalla maggior parte dei turisti solo per le sue spiagge, le sue palme e i suoi mega-resort.
La Repubblica Dominicana è stata a lungo una delle destinazioni turistiche predilette dagli italiani, al primo posto nei Caraibi. Oggi ha perso un po’ del suo smalto e certamente molte aree del paese mancano di autenticità; ma i prezzi contenuti rendono ancora allettante una vacanza a Santo Domingo – come viene di solito chiamato il paese in gergo turistico. E' a partire dagli anni sessanta che la Repubblica Dominicana si è aperta ai viaggi di massa: prima era impossibile andare, c’era Trujillo, e dopo trent’anni di feroce dittatura ce ne sono voluti altri trenta per avere libere elezioni e quella stabilità politica che ha permesso al paese di diventare la perla più pubblicizzata dei Caraibi. In pochi anni ha poi bruciato tutte le tappe: La Romana, Punta Cana e Bavaro sono solo le punte di diamante di una costa, quella sud orientale dell’isola, interamente votata al turismo balneare, un pianeta vacanziero che non si ferma mai, giorno e notte per 12 mesi l’anno.
Poco lontano da queste frequentatissime località c’è un territorio genuino e seducente che ben pochi turisti decidono di visitare; e questa scarsa propensione a metter il naso fuori dalle strutture dove tutto è compreso è alimentata da tour operator e agenzie, che mettono in guardia su fantomatici pericoli e disavventure capitate a chi viaggia da solo. Niente di più sbagliato: chi vuole vedere il paese può farlo e apprezzare realtà che l’escursione organizzata dal resort non può e non vuole probabilmente mostrare.
Da chilometri e chilometri di spiagge deserte, fitti palmeti e paludi di mangrovie della costa si passa alle montagne della Cordillera Central, ai fiumi e alle foreste tropicali. Con tutte le possibili vie di mezzo: valli fertili coltivate ad alberi da frutto, piantagioni di canna da zucchero e di tabacco, strade in terra rossa battuta con i caballeros che guidano le mandrie verso villaggi semisperduti dove spesso non arrivano nemmeno le guaguas, le scassate corriere locali.
Panorami suggestivi e, insieme, realtà dolorose: impossibile non accorgersi che oltre i giardini dei grandi hotel c’è un paese povero. Ma non per tutti, la società dominicana è regolata da un sottile gradiente di colore: più è nera la pelle e più si è miseri, se invece la sfumatura di colore tende al chiaro si vive agiatamente. E’ la memoria storica, l’eredità lasciata da hidalgos e conquistadores, gli stessi che nel 500 fondarono Santo Domingo, la città coloniale più antica e tra le più belle dei Caraibi.
Differenze sociali e discriminazioni sono le piaghe non sanate che macchiano il paradiso tropicale; e non c’è bisogno di vedere la bidonville che circonda la periferia della capitale per rendersene conto. Basta avvicinarsi all’area di confine con Haiti, il turbolento, povero e scomodo vicino con cui i dominicani dividono l’Hispaniola di Colombo. Un cattivo rapporto tra i due, condannato più volte dalla comunità internazionale per episodi di sopraffazione e sfruttamento della più agiata Repubblica Dominicana nei confronti di centinaia di migliaia di haitiani che immigrano, vivono e lavorano illegalmente nel paese.
Come in altre isole dei Caraibi ci sono più paesi in uno: nella Repubblica Dominicana è forse più netto il contrasto tra la regione ad est, quella della settimana del turista, e la regione sud ovest e l’interno, dove l’orologio è rimasto parecchio tempo indietro. E a smorzare le differenze non bastano la cadenza del merengue o della bachata e il profumo del rum che, onnipresenti, accompagnano chiunque decida di viaggiare nel paese.
[Photo credits: Dominican Republic Ministry of Tourism]