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Dossier Tropici

Petrolio offshore, un business rischioso

Da che parte pende una bilancia quando su uno dei due piatti si mette il valore del petrolio e sull'altro quello della natura? Se si vuole che il petrolio venga estratto dovranno essere costruite infrastrutture che, per quanto tecnologicamente sofisticate, costituiscono un rischio per l'uomo e per l'ambiente. Cosa si guadagna e cosa si perde in questo gioco?

E' quasi impossibile quantificare i danni a lungo termine provocati dalla marea nera che si è formata al largo delle coste della Louisiana; tutti però concordano sul fatto che l'incidente causato dall'esplosione e poi dall'affondamento della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon sia il peggior disastro ambientale ed economico dal 1989, l'anno della Exxon Valdez.
E' dal 21 aprile 2010 che dal fondo del mare un "idrante decapitato", come lo ha definito Michael Brune, direttore della storica organizzazione ambientalista Sierra Club, sta vomitando nel golfo del Messico migliaia di barili di petrolio al giorno. Quanti? Le stime cambiano, le cifre rimbalzano da una fonte all'altra e chi non è abituato a ragionare in galloni e barili fa una gran confusione. 5.000 barili al giorno, dicono, ma qualunque sia la quantità che viene sversata in mare è sempre troppo. E quel che è peggio, ogni volta che la storia si ripete è un deja vu.

Per quanto gravissimo, il disastro della Deepwater Horizon non è nemmeno uno dei peggiori, almeno in termini di quantità di greggio rilasciata. Persino l'incidente della Exxon Valdez, il caso più noto e più studiato, non rientra tra i primi 10.
Tralasciando i milioni di tonnellate di petrolio rilasciato nel golfo Persico nel 1991 alla fine della prima guerra in Iraq, il peggiore incidente petrolifero che si ricordi, in tempo di pace, è quello della Ixtoc 1: un impianto di perforazione situato nella baia di Campeche, golfo del Messico, della società messicana Pemex viene distrutto da un incendio nel giugno del 1979. Per chiudere il pozzo ci vollero 9 mesi e la quantità totale di petrolio sversato in mare non si è mai saputa con esattezza; le stime più prudenti parlano di 470.000 tonnellate, altre di 1,5 milioni di tonnellate.
Un mese dopo, luglio 1979, due petroliere entrano in collisione nel mar dei Caraibi, a largo dell'isola di Tobago. Una delle due, l'Aegean Captain, riesce a contenere i danni e viene rimorchiata a Curacao; l'altra, l'Atlantic Empress, continua a bruciare per 15 giorni e le 280.000 tonnellate di petrolio che trasportava finiscono in mare. Come nel caso della Ixtoc 1, non è mai stata effettuato alcuna relazione scientifica o finanziaria dell'incidente e la reale estensione del danno ecologico rimane ignota.

La responsabilità della catastrofe della Deepwater Horizon è finora ricaduta interamente sulla compagnia petrolifera britannica BP, che aveva in leasing la piattaforma dalla svizzera Transocean e che, dopo un'iniziale scaramuccia con quest'ultima, ha promesso che pagherà tutti i danni "quantificabili". Di certo bisognerà aspettare interminabili perizie per accertare le perdite economiche, gli appelli in tribunale e tutti i vari passaggi che già in passato si sono risolti in ammende misere, se paragonate ai danni reali.

La BP, uno dei principali attori del comparto petrolifero mondiale, non è nuova a questo tipo di incidenti. Nel 1998, da una condotta collegata ad una piattaforma situata 100 miglia a sud est di New Orleans fuoriescono 155.000 galloni di greggio, che raggiungono le coste della Louisiana.
Nel 2002, stessa zona, altra rottura ma questa volta si tratta solo di 90.000 galloni. Nel 2005 una delle sue piattaforme viene danneggiata dall'uragano Katrina; altro sversamento, ma non è l'unico perché in quell'occasione almeno una trentina di pozzi di diverse compagnie perdono petrolio, contribuendo al disastro provocato dall'uragano.
Qualche dubbio sulla sicurezza degli impianti della BP comincia a nascere nel 2005, quando un'esplosione in una raffineria a sud di Houston uccide 15 persone e causa il ferimento di altre 170: è il peggior incidente industriale negli Stati Uniti dal 1990.
Di recente, all'inizio di aprile di quest'anno, una fuoriuscita di 18.000 galloni di greggio danneggia il delta del Mississippi, proprio nell'area del National Wildlife Refuge, zona di svernamento per centinaia di migliaia di oche delle nevi, folaghe ed anatre. L'oleodotto appartiene a Cypress Pipe Line Company, una joint venture tra BP e Chevron.

Nel 2000, diventata un gruppo che comprende Amoco, Arco e Castrol, BP si rifà il look, trasforma il suo scudo verde in un marchio nuovo, un sole verde, giallo e bianco, e lancia lo slogan "Beyond Petroleum" a simboleggiare il focus aziendale e l'impegno per l'ambiente e le fonti rinnovabili.
Peccato che l'interesse per l'ambiente venga a mancare quando deve scontrarsi con altri più forti interessi. Secondo il Guardian, la BP avrebbe esercitato pressioni per non dover adottare alcune prescrizioni ambientali richieste per la perforazione offshore, tra cui quella di un costoso dispositivo di bloccaggio a distanza del pozzo che, forse, avrebbe potuto fermare il disastro. E' un sistema obbligatorio in Norvegia e in Brasile, ma non negli Stati Uniti.

Le ragioni per puntare il dito contro BP per quest'ennesima catastrofe non mancano; ma altrettanta attenzione dovrebbe essere rivolta agli enti governativi che negli Stati Uniti hanno il ruolo di disciplinare le perforazioni offshore.
Il segretario degli interni, Ken Salazar, è a capo di un dipartimento che dovrebbe vigilare su oltre 500 milioni di acri di terra federale, quasi un quinto di tutte le terre degli Stati Uniti; i programmi del dipartimento degli interni vanno dalla protezione dei parchi e delle specie minacciate di estinzione alla fornitura di gas e petrolio.
Huffington Post, o HuffPo come viene chiamato uno dei blog più seguiti al mondo, riferisce che verso la fine del 2009, il National Oceanic & Atmospheric Administration (NOAA) aveva messo in guardia gli Interni di non sottovalutare la frequenza degli sversamenti di petrolio in mare aperto. Secondo il NOAA, il pericolo di una copiosa fuoriuscita di petrolio e le terribili conseguenze che un tale evento avrebbe avuto sulla popolazione costiera, venivano drammaticamente e sistematicamente sottostimate dal dipartimento degli interni.
Aveva poi incalzato il Washington Post, che si chiedeva perché gli Interni avessero esonerato la BP dal presentare una dettagliata analisi d'impatto ambientale sulle sue operazioni di perforazione nel golfo del Messico. Ora che il danno è fatto, la questione viene affrontata a Capitol Hill e Salazar sarà probabilmente chiamato a testimoniare.
Molti si chiedono amareggiati come una tale catastrofe sia potuta accadere con questo governo; la facile scorciatoia a cui si ricorre è che questo era il tipo di incidente che ci si sarebbe aspettati durante l'amministrazione Bush quando, come ha dimostrato l'indagine dell'ispettore generale degli Interni, Earl Devaney, c'era una notevole "promiscuità" tra il personale del dipartimento degli interni, nella fattispecie il Minerals Management Service (MMS), e quello delle compagnie petrolifere.
Con la nomina di Ken Salazar, che a suo tempo si era scontrato con l'amministrazione Bush sulla questione delle nuove trivellazioni e che aveva promosso il Colorado, suo stato di origine, a paese leader per l'energie rinnovabili, quest'andazzo sarebbe dovuto cambiare; ma oggi sono in tanti a chiedersi se sia lui l'uomo giusto che "starà con il fiato sul collo" della BP.
L'incidente della Deepwater Horizon avviene, nemmeno a farlo apposta, tre settimane dopo che Barak Obama annuncia alla nazione di aver studiato a lungo il problema e di aver fatto una scelta necessaria: quella di dare accesso a fonti di energia, creare posti di lavoro e mantenere l'economia americana competitiva. In altri termini, dà il via libera alle trivellazioni in mare e cancella con un colpo di spugna la moratoria ventennale, sopravvissuta persino ai Bush, sulle esplorazioni petrolifere della costa orientale, dal Delaware alla Florida.
Gli ambientalisti traditi e delusi ricevono in cambio un magro bottino: la flotta governativa si doterà di 5.000 auto ibride mentre il Pentagono utilizzerà una serie di velivoli e veicoli puliti alimentati da biocarburanti. E si guadagnano pure la rassicurazione del Presidente che la costruzione delle piattaforme off-shore sarà preceduta da "studi ambientali per garantire la protezione della natura".
Dopo il disastro la Casa Bianca ha annunciato il congelamento dei piani di trivellazione in nuove aree. A Washington sembra che qualcuno abbia imparato la lezione e sull'onda del disappunto mondiale si muovono diversi gruppi contrari alle perforazioni in mare aperto. Ma quando i riflettori si spegneranno il tema sarà probabilmente affrontato con lo spirito di sempre. Piuttosto che ricorrere a soluzioni verdi, come quelle di aumentare la quantità di energia derivata dal sole e dal vento, sembra più facile continuare sulla strada dei combustibili fossili; di petrolio ne serve sempre di più e dai sondaggi degli ultimi mesi risulta che circa i due terzi degli intervistati statunitensi sono a favore di nuove perforazioni.

Il 21 agosto 2009 un'enorme chiazza nera fuoriesce da un impianto di trivellazione West Atlas del mar di Timor, tra Australia e Indonesia. L'operatore dell'impianto, la thailandese PTTEP, minimizza l' incidente ma la conduttura si trova a 2.500 metri di profondità e un incendio complica ulteriormente le operazioni di contenimento: per fermare la perdita ci vogliono 73 giorni, durante i quali la marea nera invade un'area di 90.000 km quadrati di mare e di scogliere.
La zona, descritta dalla Wilderness Society come "un'autostrada marina", percorsa da balene e tartarughe in via di estinzione, delfini, serpenti marini e molte specie di uccelli di mare, viene interamente coperta di petrolio. Le reali dimensioni del disastro si rivelano di gran lunga superiori a quanto inizialmente annunciato.
La marea nera non raggiungerà le belle spiagge del Kimberley australiano ma si avvicina alle coste indonesiane, causando la morte di migliaia di pesci e provocando danni ingenti all'industria ittica locale. Pochi mesi dopo il disastro, il governo australiano concede un'altra licenza di perforazione alla PTTEP nel mar di Timor, senza nemmeno aspettare la fine dell'inchiesta sull'incidente del Montara. Un fatto a dir poco sorprendente poiché, già nelle indagini preliminari, la PTTEP ammette di non aver rispettato gli standard di sicurezza.

Purtroppo tra la massiccia fuoriuscita nel Golfo del Messico e la catastrofe del sito Montara nel mar di Timor ci sono parecchie similitudini. Secondo quanto riportato da The Australian, un difetto di cementificazione del pozzo sarebbe all'origine dell'incidente del mar di Timor, facendo ricadere la responsabilità sul gigante texano Halliburton, la stessa società ad aver cementato il pozzo della BP poco prima che esplodesse nel golfo del Messico.
Gli scandali che hanno coinvolto la Halliburton, guidata fino al 2000 dall'ex vice-presidente statunitense Dick Cheney, sono noti in tutto il mondo, ovunque la più grande compagnia di servizi petroliferi e dell'outsourcing militare abbia operato.

Il parallelo tra i due incidenti, quello del Mar di Timor e il più recente del golfo del Messico, finisce con l'eventuale coinvolgimento di uno stesso contractor e con una catastrofe ambientale di portata tutta ancora da valutare.
Ma la mobilitazione di forze in risposta al disastro è invece molto diversa. Nei giorni in cui i riflettori sono puntati sulle operazioni di contenimento della marea nera davanti alle coste della Louisiana, il WWF Australia si chiede se il governo australiano abbia fatto abbastanza quando lo stesso disastro ha contaminato le acque del mar di Timor.
Bastavano le 247 persone che per più di due mesi hanno lavorato per contenere la fuoriuscita o si poteva fare di più e, soprattutto, agire più in fretta nonostante la PTTEP avesse rifiutato l'offerta di aiuto da impianti vicini? Sembrerebbe uno sforzo limitato, se lo si paragona a quello messo in campo dagli Stati Uniti, che hanno dispiegato 7.500 operatori nelle operazioni del golfo.
La riflessione è però un'altra: di greggio a buon mercato per coprire la domanda non ce n'è più e l'industria petrolifera deve spingersi in aree più vulnerabili da un punto di vista ambientale o tecnicamente difficili, come le perforazioni in alti fondali. In luoghi remoti, come ad esempio l'Artico o le coste dell'Africa orientale, che tipo di risposta si potrebbe mettere in atto per contenere una catastrofe ambientale?
Quasi un quinto dei giacimenti di gas e petrolio non ancora sfruttati si trova nel circolo polare artico e l'84% è in mare aperto. William Eichbaum, vice presidente del WWF-US e specialista di politiche marine e dell'Artico, riassume efficacemente la questione: "se hai un attacco di cuore a Manhattan, hai buone possibilità di cavartela. Ma al polo nord, le tue chances sono nulle"

La cosa che colpisce è la mancanza di progressi nella lotta contro l'inquinamento da petrolio: 20 anni dopo la Exxon Valdez non c'è ancora la capacità di rispondere ai disastri nemmeno nel golfo del Messico, che pure può vantare la più lunga esperienza di trivellazioni in mare aperto, cominciata già negli anni 20.
Le piattaforme oceaniche dispongono di tecnologie di altissimo livello e sono progettate per garantire il massimo della sicurezza, su questo non c'è dubbio. Ma se le tecnologie di esplorazione petrolifera si sono evolute moltissimo negli ultimi venti anni, non sono migliorate affatto quelle per affrontare simili disastri. Un incidente, per quanto "improbabile se non impossibile" come assicurano le compagnie petrolifere, deve comunque essere messo in conto.

Una volta immesso nell'ambiente marino, non esiste alcun mezzo per liberarsi dall'appiccicoso bitume e spesso la cura è peggiore del male. La chiazza di petrolio va ripulita, a qualunque costo e con qualsiasi mezzo, perché ciò che non si vede non disturba. Per questo sono nati i disperdenti chimici che rendono il petrolio emulsionabile in acqua: la chiazza di petrolio viene frammentata in tante minute goccioline che si depositano anche sul fondo marino e che vengono ingerite dagli organismi ai livelli più bassi della catena alimentare. Ma sui passaggi successivi si sa poco o nulla.
I disperdenti chimici sono l'unico strumento disponibile per il trattamento di idrocarburi nelle zone tropicali e, allo stesso tempo, il mezzo più sconsigliato poiché sono molto più tossici per il corallo del petrolio stesso. Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del National Institute of Oceanography in Israele ha valutato l'impatto a breve e lungo termine di sei diversi disperdenti chimici commerciali sulla sopravvivenza di due specie di corallo indopacifico (Stylophora pistillata e Pocillopora damicornis).
I risultati sono stati a dir poco scoraggianti: una sola esposizione agli agenti chimici, usati alle concentrazioni raccomandate dal produttore, ha portato alla morte delle colonie di coralli.
Le barriere coralline dei tropici sono l'analogo in mare delle foreste pluviali: un ecosistema in pericolo che sta scomparendo ad un ritmo allarmante a causa di numerose minacce, tra cui la pesca eccessiva, il riscaldamento globale e l'inquinamento, in particolare le maree nere.


Agli stessi pericoli sono sottoposte le foreste amazzoniche da quando l'industria petrolifera si è spinta nelle regioni occidentali del Rio delle Amazzoni. In Perù, un'area di quasi 700mila chilometri quadrati, grande cioè quanto lo stato della California, è stata data in concessione per l'estrazione di gas e petrolio.
La maggior parte dei terreni dati in concessione sono aree protette, sia per la presenza di fauna selvatica sia perché popolate da gruppi indigeni; ma l'impatto negativo a livello ambientale e sociale non preoccupa il governo peruviano di Alan Garcia che, anzi, negli ultimi anni ha varato leggi per facilitare lo sviluppo estrattivo nell'Amazzonia peruviana.
L'estrazione di gas e petrolio si accompagna inesorabilmente alla costruzione di strade e di infrastrutture pesanti, alla deforestazione illegale e alla contaminazione dei corsi d'acqua e del suolo con i sottoprodotti delle perforazioni. I popoli indigeni si trovano ad affrontare minacce enormi, su tutti i fronti, e le loro proteste vengono represse nel sangue.

In Ecuador, un paese dove l'estrazione del petrolio ha un passato lungo, sanguinoso e controverso, il presidente Rafael Correa ha lanciato un piano ambizioso e sotto molti aspetti utopistico: rinunciare al più grande giacimento del paese che si trova nel sottosuolo di un'area ad altissima biodiversità, il parco nazionale di Yasuni. In cambio, Correa chiede una compensazione da parte della comunità internazionale che, in questo modo, acquisterebbe carbon credits invece di petrolio.
Correa è convinto che il piano contribuirebbe al raggiungimento di tre obiettivi internazionali: la protezione della biodiversità, il rispetto dei diritti dei popoli indigeni e la lotta contro il cambiamento climatico. Trovare compratori che paghino per lasciare il petrolio dov'è non è facile e nemmeno lo è invertire una tendenza, che sembra andare in tutt'altra direzione.
Ma quante altre volte ancora dovremo parlare di disastri petroliferi nel golfo del Messico, nel mare di Timor, nell'Artico o in Amazzonia?
[Maggio 2010]

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