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Dossier Tropici

Quando la terra trema

In California da anni aspettano il Big One e lo stesso fanno in Giappone. Queste regioni, ai due opposti estremi del Pacifico, sono le zone a più alto rischio sismico del mondo. La probabilità che nei prossimi vent'anni un abitante della California viva la terrificante esperienza di un terremoto di magnitudo 7 o superiore è 50 su 100: come a dire, la stessa probabilità che esca testa o croce lanciando una monetina. A Tokyo il rischio è 40 su 100.

Ogni anno i sismografi registrano un milione di terremoti in tutta la Terra, in media uno ogni trenta secondi; di questi, appena un migliaio è percepito dall'uomo e, per fortuna, solo una decina è abbastanza forte da provocare danni, quando si verifica in zone abitate. Ma, per quanto imprevedibile, un terremoto non è un fenomeno casuale e si manifesta solo nelle zone della superficie terrestre sismicamente attive.

La litosfera, quel sottile rivestimento esterno che avvolge il nostro pianeta, anche se apparentemente immobile è in realtà un mosaico in continua trasformazione: è attraversata da un'immensa rete di profonde spaccature, crepe e fratture che delimitano le placche, sulle quali poggiano oceani e continenti.
Le placche, una ventina in tutto, si muovono di continuo di un moto indipendente l'una rispetto all'altra, spinte dai flussi del materiale caldo sottostante. Quando le masse rocciose sono sottoposte a forze deformanti tali da superare il limite di rottura, l'energia accumulata viene bruscamente rilasciata e si genera un terremoto.
Di conseguenza, l'attività sismica si concentra nelle fasce lungo cui interagiscono i margini delle placche. Le zone a sismicità più intensa, che contribuiscono per più dell'80% all'energia totale liberata dai terremoti, si localizzano nei pressi delle grandi fosse oceaniche del Pacifico prossime ai continenti: al largo delle coste andine del sudamerica, delle isole Aleutine (tra Alaska e Siberia), del Giappone e dell'Indonesia.
In questo caso la sismicità è associata al movimento di subduzione: il margine di una placca scorre sotto la placca vicina e si inflette negli strati più profondi. Ad esempio, i grandi terremoti che tanto spesso sconvolgono la regione andina, sono un segno evidente dei violenti attriti causati dalla placca di Nazca in subduzione lungo la fossa Perù-Cile. D'altra parte, la stessa catena delle Ande, in continua crescita da alcune decine di milioni di anni, è il risultato della collisione della placca di Nazca con la placca sudamericana.
L'altra fascia sismica molto attiva segue il percorso delle montagne di formazione più recente, dal Mediterraneo all'Himalaya fino in Cina. Le spinte delle placche africana e indo-australiana che premono contro la placca eurasiatica e che hanno dato origine alle grandi catene montuose euroasiatiche non si sono ancora esaurite; ed è proprio a queste gigantesche forze che si fa risalire la causa dei terremoti registrati ogni anno lungo quest'ampia fascia.

L'innesco di un terremoto è favorito dalla presenza delle faglie, quel complesso sistema di profonde spaccature che si formano nei punti di rottura della crosta terrestre.
La faglia di San Andreas in California, e tutto il sistema di faglie annesse, è il risultato dell'interazione tra la placca nordamericana e la placca pacifica: la prima si muove verso nord ovest, più velocemente dell'altra, che invece scorre lateralmente in direzione opposta. Ogni spostamento avviene a scatti e corrisponde ad un rilascio di energia (e quindi un terremoto) intervallato da un periodo di apparente quiete, durante il quale la faglia si "ricarica". Questo sistema fa sì che la California sia la regione più sismica del mondo, in cui si registrano in media duecento terremoti all'anno di magnitudo 3 o superiore.

I terremoti sono rilevati dai sismografi, strumenti che riproducono in scala le oscillazioni che si propagano nel suolo; dall'ampiezza delle onde sismiche si ricava la magnitudo e dall'esame dei tempi di propagazione e di altre indicazioni fornite da un sismogramma si risale alla profondità dell'ipocentro (il punto all'interno della Terra in cui l'energia si libera) e alla posizione dell'epicentro di un terremoto (la zona posta in superficie sulla verticale dell'ipocentro). Un terremoto di magnitudo 7 sprigiona l'energia equivalente all'esplosione di una bomba nucleare da un megaton (un milione di tonnellate di tritolo). Un terremoto di magnitudo 8 è dieci volte più forte di uno di magnitudo 7, ma 100 volte più forte di un sisma di magnitudo 6. Questo perché la magnitudo, cioè la forza di un terremoto, si misura con la scala Richter, una scala logaritmica in cui ogni unità successiva corrisponde ad un aumento di un fattore 10 nell'ampiezza dell'oscillazione e ad una liberazione d'energia circa 30 volte maggiore.
Di solito i terremoti con magnitudo fino a 3 vengono difficilmente percepiti; da magnitudo 5 in su cominciano i danni, fino ad arrivare alla completa distruzione per sismi di magnitudo 8 o superiore.

Il 27 febbraio del 2010 un terremoto di magnitudo 8,8 fu registrato al largo delle coste centrali del Cile; le vittime accertate furono oltre il migliaio.
Ma il terremoto più violento mai registrato in Cile e nel mondo negli ultimi cento anni fu quello del 1960: magnitudo 9,5, epicentro nei pressi di Valdivia una città sulla costa meridionale del paese. I morti furono circa 3.000.
Un sisma di magnitudo 9,2 colpì nel 1964 la regione di Prince William Sound, nel golfo dell'Alaska; le vittime furono poche centinaia, ma solo perché la zona era ed è scarsamente popolata.
Nel 2004 fu la volta dell'Indonesia: l'isola di Sumatra fu scossa da un sisma sottomarino di magnitudo 9,1 che provocò la morte di 230.000 persone in 12 differenti paesi del mondo. In questo caso, così come per i terremoti appena citati, il movimento della faglia fece oscillare il fondo del mare e scatenò nella massa d'acqua sovrastante onde di maremoto che si propagarono da un continente all'altro.
Le onde generate da uno tsunami possono viaggiare per migliaia di chilometri in mare aperto all'impressionante velocità di 500-700 km/h. Si tratta di onde lunghe, con una distanza tra le due creste di 150 km, e quindi praticamente impercettibili in mare aperto, che quando però raggiungono le acque poco profonde dei litorali, rallentano in velocità ma aumentano in altezza, superando a volte i 20 metri. Un muro d'acqua si abbatte sulla costa, travolgendo edifici e tutto ciò trova sul suo passaggio; le inondazioni possono interessare tratti di costa lunghi migliaia di chilometri. Lo tsunami collegato al sisma al largo di Sumatra del 2004 si propagò fino alle coste dell'Africa, lungo tutto l'oceano Indiano ma le onde colpirono con maggiore violenza le coste della Thailandiae dello Sri Lanka.
Il grande terremoto cileno del 1960 innescò uno tsunami che sconvolse le isole Hawaii e provocò centinaia di morti in Giappone e nelle Filippine, all'estremo opposto del Pacifico.
L'ultimo violento tsunami è stato quello del 30 settembre del 2009: un sisma di magnitudo 8,3, localizzato al largo delle Samoa, provocò onde altre tre metri che seminarono morte e distruzione lungo le coste di queste isole del Pacifico.

Il Pacific Tsunami Warning Center di Honolulu (Hawaii) è il centro di sorveglianza, attivo 24 ore su 24, che raccoglie i dati da una rete di monitoraggio che copre tutto l'area del pacifico e identifica il propagarsi di uno tsunami. Le informazioni provenienti dalle stazioni sismologiche vengono elaborate e incrociate con i dati rilevati dai misuratori del livello marino; poiché le onde sismiche si muovono più rapidamente nel terreno rispetto alle onde di maremoto, la nascita di uno tsunami è identificabile in anticipo ed è quindi possibile lanciare l'allarme a tutte le località minacciate con un margine di tempo sufficiente, almeno in alcuni casi, a salvare vite umane.
Dopo i più recenti eventi catastrofici il sistema di allarme tsunami si è allargato a 26 paesi, sono state installate nuove stazioni e implementati programmi di evacuazione in tutte le aree a maggior rischio. La rete sfrutta il sistema DART (Deep-ocean Assessment and Reporting of Tsunamis) basato su sensori "intelligenti", posizionati sul fondo del mare e collegati in superficie con boe che trasmettono di continuo segnali via satellite. Il primo avviso viene lanciato ogni qualvolta una delle stazioni sismologiche della rete registra un terremoto di magnitudo superiore a 7,5; è un primo bollettino, rivolto ai paesi che si trovano a 6 ore dall'arrivo di un potenziale maremoto. Quando i sensori confermano l'aumento del livello marino e quindi il passaggio dello tsunami, il Centro di allerta invia il bollettino di conferma con i tempi di propagazione e di arrivo sulle coste; ed è qui che scatta l'allarme che viene esteso a tutte le zone interessate. Il sistema è tarato per rilevare anche minime variazioni del livello marino ed è inevitabile, quindi, che ci siano falsi allarmi, che il più delle volte vengono cancellati nel giro di un'ora.
Se i programmi pubblici di allerta e di evacuazione sulla terraferma funzionassero a dovere, si potrebbero evitare se non i danni, almeno le vittime di un fenomeno così catastrofico come lo tsunami.
Cosa ben diversa e più complessa è invece la difesa dai terremoti; il tributo pagato in termini di vittime e danni è ancora spaventoso. I terremoti e le catastrofi da essi innescate provocano ancora decine e decine di migliaia di vittime ogni anno, anche nei paesi che dispongono di mezzi, strumenti e conoscenze.

Tranne qualche rarissima eccezione, un terremoto non è prevedibile, né tanto meno, controllabile. L'unico caso, passato alla storia, è stato quello del 1975 in Cina: la popolazione della regione di Haicheng venne evacuata dalle autorità poche ore prima che si verificasse un sisma di magnitudo 7,6. I segni premonitori, come vistosi rigonfiamenti del suolo e l'intorbidamento delle sorgenti, erano non solo evidenti agli occhi di chiunque ma soprattutto si erano manifestati con sufficiente anticipo per consentire l'attuazione di un programma di pre-allarme.
In altri casi, tuttavia, agli stessi fenomeni ritenuti segni sicuri dell'imminenza di un terremoto, non è seguito alcun evento. Tra il 1960 e il 1974 un'ampia zona a cavallo della faglia di San Andreas in California si sollevò di 40 centimetri; nel 1976 torno ad abbassarsi senza che si generasse una sola scossa di terremoto. Un allarme a tempo indeterminato può provocare più danni che benefici, così come la previsione statistica, anch'essa a lungo termine, è di scarsa utilità pratica per l'allarme sismico. Ci sono tuttavia una serie di studi di grande importanza per circoscrivere le zone maggiormente "indiziate" dove è statisticamente probabile il verificarsi di un sisma. Alcune ricerche si concentrano in quelle aree del pianeta a forte sismicità, dove da un certo tempo non si riscontrano segni recenti di attività: sono le zone di gap sismico, solo momentaneamente immobili ma presumibilmente sottoposte a forze e ad un accumulo di energia che prima o poi dovrà essere rilasciata. Nel 1977 venne segnalato un gap sismico che durava da 4 anni nella zona di Oaxaca, nel Messico meridionale, al margine della placca delle Cocos; sebbene non ci fossero evidenti segni premonitori, i ricercatori previdero un sisma di magnitudo superiore a 7, che effettivamente arrivò a colmare il vuoto sismico e si verificò l'anno successivo, per fortuna in una zona disabitata.
La valutazione probabilistica è di grande interesse scientifico ma non è la strada che può portare ad una significativa diminuzione delle vittime, almeno nell'immediato futuro. La difesa dai terremoti può venire solo da un'efficace analisi delle caratteristiche sismiche di un territorio, dall'applicazione rigida delle norme di edilizia antisismica e dall'educazione di massa sui rischi connessi ad un terremoto. Il rapporto tra l'intensità del terremoto e il numero di vittime è ancora troppo alto in molti paesi del mondo, come ha di recente dimostrato il terremoto di Haiti che pur non essendo tra i più forti si è portato via 220.000 persone.
Anche in Italia, nonostante il 45% del territorio sia ufficialmente catalogato a rischio sismico, la maggior parte delle abitazioni è vulnerabile ed esposta ad un livello di pericolo inaccettabile, soprattutto se paragonato a quello di altre nazioni industrializzate e culturalmente avanzate, come il Giappone o gli Stati Uniti, dove aspettano il Big One in edifici dotati di cuscinetti antisismici o costruiti con materiali più resistenti alle fratture e in grado di assorbire le scosse.
[Settembre 2010]

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