" ...la Compagnia United Fruit si riservò la parte più succosa,
    la costa centrale della mia terra,la dolce cintura d'America.
    Ribattezzò le sue terre 'Repubbliche Banane'..."
                       Pablo Neruda da Canto General, 1950
Ai tropici si può trovare un banano praticamente in ogni cortile. E' un arbusto che non richiede particolari attenzioni: cresce bene in ambienti caldo-umidi, fiorisce e poi fruttifica una sola volta prima di morire.
Ma se parliamo di produzione su larga scala è tutta un'altra cosa.
La banana è il frutto tropicale più consumato e quindi il più esportato al mondo.
I paesi della fascia tropicale ne producono quasi 80 milioni di tonnellate l'anno e più di un quinto di questa produzione è destinato al commercio internazionale.
Il lungo viaggio delle banane non è fatto soltanto di miglia di mare a bordo di navi da carico.
Comincia nelle piantagioni, dove lavorano milioni di persone per le quali il settore e l'indotto bananiero sono le uniche fonti di guadagno, ma prima di arrivare sulle nostre tavole fa tappa in molte stanze del potere.
E' un intreccio complesso che ha come protagonisti governi e società multinazionali, burocrati e uomini del marketing della grande distribuzione; i piccoli produttori indipendenti, i bananeros o gli altri lavoratori malpagati, loro hanno diritto solo a brevi comparsate.
Invece i consumatori stanno avendo un ruolo sempre più importante.
Le varietà, il consumo e i produttori
Le banane sono un alimento essenziale nella dieta di molti paesi a basso reddito. Il genere che produce banane commestibili proviene dalla Malesia e pare sia stato importato, in varie tappe dal Pacifico all'oceano Indiano fino in Africa, ben duemila anni fa.
Solo molto più tardi gli europei portarono le piante di banano dall'Africa ai Caraibi e in tutta l'area latino americana. Laggiù cominciarono a crescere rigogliose e furono chiamate 'oro verde'.
Dalle nostre parti le banane sembrano tutte uguali perché quelle da esportazione derivano da due varietà di base, la Gros Michel e la Cavendish. Di fatto mangiamo solo banane Cavendish: questa tipologia rappresenta la metà della produzione mondiale ed, essendo più resistente al trasporto e ai funghi, ha progressivamente sostituito, dagli anni 70 in poi, la Gros Michel.
In realtà di banane ne esistono molte altre varietà, dai nomi quasi sconosciuti, come Govenor, Sucrier, Valery, Robusta, tutte molto dolci e profumate.
Poi c'è la banana verde, il plantano (o platano) che è parte integrante nella cucina di moltissimi paesi tropicali. Ha un alto contenuto di amido e un gusto poco palatabile, ragion per cui viene cucinata in vari modi e servita spesso da contorno ad altre pietanze.
In alcune zone dell'Africa, dove si coltivano ancora diverse varietà esotiche, le banane vengono utilizzate per ricavarne birra a basso contenuto alcolico. Se ne fanno anche distillati, come nel caso del waragi, la bevanda nazionale dell'Uganda.
Perfino le foglie della pianta trovano ampio utilizzo in cucina, ad esempio per proteggere i cibi durante la cottura nel forno tradizionale di terra, come si fa in molte isole del Pacifico, oppure cotte a vapore per avvolgere dolcetti come i conkies di Barbados.
Più di 100 paesi della fascia tropicale coltivano banane dolci e platani ma la produzione maggiore è concentrata in pochi paesi, primi fra tutti India e Brasile. Dagli anni settanta in poi le aree coltivate sono cresciute a dismisura e da 30 milioni di tonnellate prodotte quarant'anni fa si è passati agli 80 milioni attuali; ma l'incremento produttivo è stato maggiore nei paesi asiatici, tanto che Cina e Filippine sono diventate oggi il secondo e terzo produttore del mondo.
I maggiori produttori - India, Cina e Brasile - hanno un elevato consumo interno e sono perciò coinvolti nel commercio internazionale delle banane solo in minima parte.
Invece, i paesi dell'America latina producono banane da esportazione; la maggior parte delle banane consumate nel mondo occidentale proviene, infatti, da Ecuador,
Costa Rica
e
Colombia.
Seguono, con una quota minore, paesi come Guatemala, Honduras e Panama.
Sono produttori-esportatori anche le piccole isole dei Caraibi, soprattutto le Windward (St Lucia, St Vincent, Grenada e Dominica), le Antille francesi (
Martinica e
Guadalupa), e alcuni paesi dell'Africa occidentale (Camerun, Costa d'Avorio e, più recentemente, Ghana).
I sistemi di produzione sono essenzialmente di due tipologie: poche, grandi piantagioni e moltissime coltivazioni su piccola scala.
Le prime sono localizzate quasi tutte in America centrale, dove si trovano aree coltivate che si estendono per migliaia di ettari e che spingono la produzione con sistemi industriali tecnologicamente avanzati. Queste piantagioni, controllate direttamente o indirettamente dalle grandi multinazionali, rappresentano solo il 17% della produzione mondiale ma arrivano a coprire l'80% del mercato internazionale, grazie all'economia di scala e alla disponibilità di abbondante manodopera a basso costo.
Il resto della produzione è nelle mani di tanti piccoli coltivatori, che dispongono di appezzamenti di terreno di dimensioni ridotte e che, come accade ad esempio nella zona caraibica, non potendo realizzare economia di scala hanno costi maggiori e bassa produttività.
La guerra delle banane
I maggiori importatori di banane sono i paesi industrializzati che non le producono sul loro territorio: nell'ordine EU, USA e Giappone. L'Unione Europea e gli Stati Uniti ne consumano più della metà del totale.
Ma da chi le acquistano e a quale prezzo?
Alla prima domanda è facile rispondere, perché tre multinazionali controllano i due terzi del mercato globale: Chiquita, Dole e Del Monte. Per rispondere al secondo quesito bisogna chiamare in causa la guerra delle banane, il più lungo e aspro conflitto mai combattuto nella storia del commercio globale.
Sono stati scritti interi libri e trattati sull'argomento ma, volendo semplificare, tutto nasce nel 1975 quando l'Unione Europea firma un accordo che garantisce privilegi fiscali e riserva piccole quote di mercato ad alcuni prodotti provenienti da 70 paesi poveri, in gran parte ex colonie di Africa, Caraibi e Pacifico, che da allora vengono indicati con l'acronimo ACP.
Il regime commerciale della prima convenzione di Lomé - così si chiamava l'accordo - e dei suoi successivi aggiustamenti era volto a garantire, attraverso l'esenzione dei dazi sulle importazioni dagli stati ACP, la stabilità del settore bananiero nei paesi fortemente dipendenti da queste esportazioni e perciò la sopravvivenza dei piccoli produttori di banane, che non erano oggettivamente in grado di competere con lo strapotere delle multinazionali.
I paesi dell'Unione cominciano ad adottare diversi regimi commerciali, in funzione delle proprie convenienze e dei legami storici con i paesi esportatori, e il sistema regge, in maniera più o meno disordinata, per un certo numero di anni.
Nel 1993, con l'istituzione del Mercato Comune, l'Unione Europea si trova ad armonizzare il protocollo delle banane e introduce un complesso regime di importazione, esteso questa volta a tutti i paesi membri.
La nuova riforma conferma l'esenzione dei dazi e l'accesso privilegiato al mercato europeo per le banane comunitarie (prodotte nelle regioni ultraperiferiche dell'Unione - Antille e Canarie) e per le banane ACP; allo stesso tempo, impone un sistema tariffario alle dollar bananas (in gran parte prodotte in America latina dalle multinazionali statunitensi).
In altre parole, le importazioni di 'banane da dollaro' vengono sottoposte a tasse e ad un sistema di licenze piuttosto oneroso. E qui si scatena il putiferio.
Il contraccolpo sui bilanci aziendali delle tre signore delle banane è disastroso. Negli anni successivi all'introduzione del regime protezionistico europeo, Chiquita registra le più gravi perdite della sua storia: duecento milioni di dollari l'anno e crollo dei titoli a Wall Street.
Nel 96, le pressioni di Chiquita che, com'è noto ha sempre saputo influire sul governo di Washington, spingono gli Stati Uniti ad appellarsi al
WTO: i burocrati del commercio sentenziano a sfavore dell'Europa e condannano quest'ultima a ripristinare un sistema di libero commercio.
L'Unione Europea replica alle accuse, sostenendo che i paesi ACP non possono operare in condizioni di equa competizione e presenta una serie di proposte di compromesso, che prevedono tutte una forma di assistenza ai piccoli produttori dei paesi ACP, per sostenerne la competitività nei confronti dei latifondisti americani.
Ma le proposte vengono sistematicamente respinte oltre oceano, poiché nessuna di esse abolisce integralmente i privilegi concessi alle banane ACP.
Come risposta gli Stati Uniti minacciano di imporre sanzioni sul formaggio di capra, il cachemire e su molti altri prodotti di importazione europea. Il WTO questa volta respinge la ritorsione economica, condannando comunque l'Europa a pagare 190 milioni di dollari a copertura dei danni.
L'accanimento continua fino al 2001, quando si firma una sorta di accordo di transizione valido fino al 2006, ma di fatto ancora oggi si continua a trattare. Tuttavia, le prospettive che dovrebbero mettere la parola fine alla guerra delle banane sono definite; è ormai certo che con la riduzione dei dazi doganali sulle banane da dollari si assisterà al crollo dei prezzi e, di conseguenza, a perdite devastanti per i piccoli paesi produttori, che verranno forse compensate con pochi spiccioli.
Quanto ai consumatori finali, sta a loro a decidere; il maggior beneficio andrà a chi compra banane da dollaro, che già ora costano meno e che, nonostante il regime protezionistico, rappresentano la fetta più grossa del mercato europeo.
In futuro i prezzi delle banane prodotte dalle multinazionali si abbasseranno sempre di più e sui banchi dei supermercati sarà difficile vedere banane di diversa provenienza.
Ma un'alternativa c'è, quella del commercio equosolidale, per i consumatori disposti a pagare un prezzo che possa garantire un livello di vita dignitoso a chi lavora in questo settore.
Banane: chi ci guadagna
Il quadro si riassume in pochi numeri: solo il 12% del prezzo pagato per una banana rimane nel paese di produzione, ai piccoli produttori va una media del 5-10% e ai braccianti tra l'1 e il 2%.
Il regime protezionistico europeo sulle banane da dollaro è stato sempre fortemente criticato non solo dagli Stati Uniti e dalle multinazionali americane ma anche da numerosi paesi produttori, come Ecuador, Costa Rica, Colombia, Guatemala e molti altri che venivano discriminati dal sistema tariffario imposto alle dollar bananas.
Di fatto, seppure corretto nei principi, il sistema europeo non ha mai funzionato a dovere e buona parte delle rendite non sono andate ai paesi ACP ma ai distributori e alle multinazionali, soprattutto a quelle presenti nei paesi ACP.
In Camerun, ad esempio, gran parte delle esportazioni di banane sono controllate da Dole e Del Monte.
Secondo un rapporto di
BananaLink, il totale degli introiti dei produttori dei paesi ACP corrisponde appena al 10% delle vendite che realizza la sola Chiquita.
Per avere un'altra idea del divario basta guardare i salari: la paga giornaliera di un operaio agricolo in Costa Rica, il cui mercato è nelle mani dalle tre maggiori multinazionali, equivale ad un'ora di lavoro nelle coltivazioni di Martinica o Guadalupa. Parlando di Antille francesi, e quindi di territori che fanno parte dell'Unione Europea, il paragone può sembrare forzato. Ma è un dato di fatto che la paga retribuita qualche anno fa da Chiquita era di soli 6 dollari per 12-18 ore di lavoro.
Secondo l'associazione
Common Cause, durante la guerra delle banane Chiquita ha versato più volte cospicui fondi nelle casse del partito repubblicano, con cui ha sempre avuto ottimi rapporti, offrendo comunque aiuto anche ai democratici.
La storia di Chiquita comincia nel 1870, con le banana boat provenienti dalla
Giamaica. Allora si chiamava United Fruit Co. e subito si guadagnò una reputazione poco rispettabile in tutto il centro America: era conosciuta come El Pulpo, un appellativo certo poco edificante, giustificato dall'uso di squadre armate all'interno delle piantagioni, scioperi finiti nel sangue, abusi e maltrattamenti dei lavoratori, per non parlare degli illeciti ambientali compiuti utilizzando pesticidi proibiti.
A discolpa di Chiquita bisognerebbe tuttavia citare il curriculum di Dole o quello di Del Monte, entrambi altrettanti lunghi e con una presenza storica in America latina.
In Ecuador, il maggior esportatore di banane al mondo, la situazione è un po' diversa.
Le multinazionali straniere sono praticamente assenti e la produzione più diffusa è quella su piccola scala; le esportazioni sono in gran parte controllate da Noboa, una compagnia nazionale che commercializza con il marchio Bonita.
I prezzi minimi vengono stabiliti dal governo ma spesso non sono rispettati dagli intermediari nazionali e, di conseguenza, la concorrenza tra i produttori è spietata e i salari e le condizioni di lavoro sono pessime.
Il presidente Correa ha recentemente chiesto sanzioni per gli esportatori che non rispettano i prezzi minimi e ha in mente di creare una società di stato che metta fine agli abusi perpetrati dalle compagnie private.
Intanto, alcuni produttori ecuadoregni stanno giocando un'altra partita, offrendo i loro prodotti attraverso i circuiti del mercato equo e solidale.
CTM Altromercato diffonde in Italia le banane di El Guapo, un'associazione composta da 350 produttori che garantisce ai contadini una paga superiore del 20 percento rispetto al reddito percepito dagli altri operai del settore.
Sono molti i paesi che via via aderiscono al circuito equo e solidale. Oltre un quinto delle banane prodotte nelle isole Windwards sono vendute attraverso Fairtrade e lo stesso vale per la
Repubblica Dominicana che, tra l'altro, è uno dei maggiori esportatori di banane biologiche.
Il premio pagato da Fairtrade è stato reinvestito in numerosi progetti a beneficio delle comunità locali.
In Italia le banane biologiche provengono dall'associazione El Guapo in Ecuador e da Copetrabasur, una cooperativa autogestita da ex lavoratori Chiquita in Costa Rica.
In Europa opera attivamente il network COMES a cui aderiscono quindici gruppi di produttori di Ghana, Ecuador,
Repubblica Dominicana, Colombia, Costa Rica e Filippine. I prodotti del circuito COMES sono certificati da
FLO International
(Fair Trade Labelling Organizations) un'organizzazione non governativa nei cui registri sono attualmente iscritte le associazioni di produttori di 28 paesi in America Latina, Caraibi ed Africa.
I prezzi delle banane equo sono superiori del 50% circa rispetto alle banane convenzionali ma inferiori del 20-25% rispetto alle banane bio e il commercio avviene in gran parte attraverso la grande distribuzione; Coop Italia ed Esselunga sono stati i primi ad aderire.
Le condizioni di lavoro e i diritti sindacali vengono rispettati, l'espansione delle piantagioni è soggetta a vincolo ambientale e l'inquinamento da pesticidi è sottoposto a rigidi controlli.
Un sondaggio condotto in aprile da FLO su 14.500 consumatori in 15 paesi ha messo in evidenza che una quota importante di persone continua a credere nel meccanismo "Trade and not aid".
Il 5 novembre Fairtrade ha comunicato che per fronteggiare la spirale al ribasso sarà aumentato il prezzo di vendita delle banane, con effetto dal primo gennaio 2010. C'è da sperare che i consumatori non tradiscano un prodotto più caro, ma di qualità migliore, abbandonando così i "5 milioni di persone - contadini, lavoratori e le loro famiglie - attraverso 59 paesi in via di sviluppo, che beneficiano del sistema internazionale Fairtrade".
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